Sven Väth è uno di quei nomi che, per chi ama e frequenta la club-life, sembrano esistere da sempre. Un pò come per i grandi campioni dello sport (Michael Schumacher, Diego Armando Maradona, giusto per citarne alcuni), anche lui è tra quelli che saranno ricordati sempre e comunque con un pizzico di malinconia. Sven ‘Fet’, così come la corretta pronuncia tedesca vorrebbe, continua, nonostante il passare degli anni, a cavalcare le mode non lasciandosi affatto intimidire dai risultati di un mercato della musica mai vacillante ed altalenante come quello attuale. Sven è quello che durante le centinaia di gigs tenute nei clubs di tutto il pianeta si diverte nel far divertire, nell’autocanzonarsi, nell’evitare il tipico snobismo da superstar: lui è il coordinatore delle danze, quello che anima la serata così come faceva sul palco del Festivalbar del 1987 quando, con qualche capello in più in testa, si agitava cantando “Electrica Salsa” degli Off (i futuri Snap!). Nel nuovo mix “The Sound Of The Ninth Season”, una saga nata nel 2000 e che nel tempo è divenuta momento cruciale per migliaia di fans sparsi per il mondo, il dj tedesco mette insieme indistintamente house e techno, con la tipica voglia di chi tiene un set in un club, crescendo di bpm in bpm per fare baldoria. Due i cd’s, il Disco e l’Invaders, mixati (ovviamente) in modo classico visto che Väth è tra i pochissimi ad arrivare in consolle tirandosi dietro ingombranti ma passionali flight-cases pieni zeppi di vinili. In totale ci sono circa 160 minuti di pura dance music moderna in cui cade ogni sottile quanto fragile muro divisorio tra generi. A rappresentarla artisti come Mathew Jonson, Sasha, Timo Maas, Alex Flatner, Radio Slave, Smith & Selway, la sua “Trashbindance” realizzata con l’amico Roman Flügel e “Mismoplastico” degli italiani Virtualmismo (Christian Hornbostel e Sasha Marvin), un vero evergreen del 1992 ripreso con frequenza negli ultimi anni per la sua particolare attitudine a non invecchiare mai. Nell’Invaders invece il buon Sven cambia qualche carta preferendo ondeggiare su un sound che batte meno frenetico e sicuramente più deep. La selezione regge comunque il confronto col primo cd grazie alle fantasiose combinazioni sonore di Anthony Collins, Kollektive Turmstrasse, Robert Babicz, Johnny D, Quenum, Reboot, Sven Tasnadi e Luke Solomon (riletto da Prins Thomas). Un tripudio per chi ama ballare sotto le luci stroboscopiche ed una festa, l’ennesima per il quarantaquattrenne che ha scritto una pagina fondamentale della musica elettronica di fine secolo-millennio, a cui spetta di diritto entrare nella leggenda.
-Unit Moebius “The Golden Years” (Clone Classic Cuts): c’erano una volta gli Unit Moebius, il collettivo olandese che agli inizi degli anni novanta infiammò i parties illegali di Rotterdam e Den Haag con techno industriale, electro/hip-hop ed acid-house. Considerati dei visionari e sempre troppo poco commerciali per essere presi in considerazione dai top dj’s europei attirati, ai tempi, dalla techno-trance, i quattro (dell’apocalisse) se ne infischiarono in toto di ciò che scalciava dalle terre tedesche, da sempre detentrici dei trends continentali, incidendo ben sette albums e svariati singoli spaiati su labels note e non (dalla Bunker alla Disko B passando per Acid Planet, Blue Attack, Interr-Ference Communications, KK Records ed addirittura l’italiana PRG che licenziò, per un numero strettissimo di eletti, “Zipper”). Il 1999 fu l’anno in cui gli irriducibili dell’underground più vivo e nutrito dalla sola passione decisero di dare una svolta alle proprie carriere da solisti: ognuno (Menno ‘Duracel’ Van Os, Ferenc ‘I-F’ Van Der Sluijs, Guy Tavares, Jan ‘Nimoy’ Duivenvoorden) prese strade differenti dando avvio ad un nuovo corso per la musica ‘sotterranea’ dei Paesi Bassi. La serie di cdr pubblicata in tempi recenti ha probabilmente fornito l’imput giusto alla Clone, etichetta attorno a cui gravitano le costellazioni soniche del quartetto, per rispolverare il marchio Unit Moebius attraverso “The Golden Years”, un vero ‘best of’ atto a raccogliere il meglio che il team ebbe modo di pubblicare negli anni d’oro (così come recita il titolo stesso). La selezione ruota intorno a brani come “Ecology”, “Bender World”, “Mirrors”, “Popcorn”, “Dolfinarium” e “Nylon”. La versione in cd sarà anticipata da due vinili pensati appositamente per la dancefloor (tra le tante anche “World Goes Around”, cover del classico di Kool Ma Kool risalente al 1988). C’erano una volta gli Unit Moebius. E per fortuna ci sono ancora.
-Ogris Debris “Compost Black Label #39” (Compost): laddove si volesse parlare di particolari alchimie sarà necessario citare il nome dell’ancora sconosciuto Ogris Debris, preso sotto l’ala protettiva della Compost di Monaco. Il suo Black Label è fatto di due tracce, una più curiosa e sbilenca dell’altra: “Hide Open”, immersa tra percussioni afro ed archi progressive-house, “G-Thong” localizzata in un gorgo di stridenti vocals filtrati (un pò sulla scia francese di qualche anno fa) abbinati ad una base deep-soul-house questa volta accostabile, almeno per scelte tonali, alle releases di Yore e nello specifico del raffinato Rick Wade. Se fossero uscite una dozzina d’anni fa forse sarebbero passate inosservate ma oggi meritano tutta la nostra attenzione.
-Lory D “8 Gate” (Wireblock): tra le icone della Roma dei raves di inizio anni novanta insieme a Marco Passarani, Leo Anibaldi, Andrea Benedetti, Paolo Zerla, Sandro Galli e pochi altri che seppero creare una scena indipendente capace di essere ammirata oltre i confini alpini, Lory D rimane lo sperimentatore per antonomasia. Ideatore di una tra le prime labels sperimentali del nostro Paese, la Sounds Never Seen, e voluto da Aphex Twin sulla sua Rephlex, Lorenzo D’Angelo celebra (ancora) il suono della Tb-303, quella ‘macchinetta’ che per anni è stata oggetto di scarsa considerazione poichè generatrice di un suono poco sfruttabile per i generi in voga. “Acix9999” è schiettamente acid, pura e spassionata, con le sfibranti galoppate di bassline in bella mostra. Il romano pensa sempre alla techno del decennio passato, a volte contorta e spigolosa (“Mixalo”) ed altre più sinuosa ed ipnotica (“Remixalo”, ossia una rivisitazione di “Cleaner From Prati”, edita sull’ultimo Sounds Never Seen del 1999). L’estero continua ad invidiarcelo.
-Harada “I Came” (Blu Fin): dopo essersi diviso il ruolo di autore con Wollion per “Metropolitan Fulltime”, del 2007, Harald Aufmuth ritorna su Blu Fin con un brano che nella sua versione originale mischia i gracchianti crepitii alla Dapayk a melodie palleggiate, sempre in bilico su sottili fasce ritmiche. Andrew Venagas alias Onionz preferisce calcare la mano più sul ritmo, potenziandolo e stazionandolo sul canonico movimento in 4/4 rammentando, seppur per linee generali, la techno tedesca in voga tra 2000 e 2002. Buona anche l’idea che risiede alla base di “Morgenrot”, incrocio tra minimal e deep-trance, forse un pò troppo ‘sonnacchiosa’ per un set techno ma sognante al punto giusto.
-Kragg “Voltage Controlled” (Transient Force): tra le labels d’oltreoceano rimaste fedelmente legate alle origini del suono electro made in Detroit, la Transient Force conferma, ancora una volta, la sua rassicurante presenza all’interno di un mercato che lascia sempre meno spazio alla sperimentazione. Kragg, presentato dalla medesima label pochi mesi fa attraverso la raccolta digitale “Searching For 808”, è alle prese con un album che attinge dal grande campionario lasciato in eredità da Juan Atkins e James Stinson. Attraverso undici composizioni si naviga su delicate soundtracks (“Shining Helmet”), su vortici analogici che risucchiano in mondi cibernetici (“D.A.R.Y.L. (8Bit Processor) 1,85bis Smoother Dithered”), su sequenze pungenti (“Biotope Pt1&2”), su strutture sospinte quasi su toni acidi (“Rocket”) e su sincronie ritmiche agitate (“Tonimalt”). Avvicinandosi sensibilmente al mondo gotico di Danny Wolfers poi Kragg realizza “Nostromo Conspiracy 162” ed una manciata di visioni dark-wave (“Phoenix Training” ed “Attack Plan9”). Se non ne avete ancora abbastanza allora non vi resta che sudare sui beats contorti di “Astrobelt 1,36bis”, “Scourge” e “Lunar Excavator 119bis”, non lontani dal sound proposto più volte da Carl Finlow nelle vesti di Silicon Scally.
-Muravchix “Replicant’s Lament” (Dissident): referenze 80s d’obbligo per il nuovo Dissident curato da Sebastian Muravkix. La one-side in questione ha come oggetto la riedizione della datata electro-dance prodotta in Italia quasi trent’anni fa. Basso (analogico) arpeggiato posizionato su classici beats retro sono lo scheletro di “Replicant’s Lament”, il più naturale risvolto al classico suono di matrice 80s riprodotto con fedeltà già qualche mese fa attraverso “Tropical Warrior”. Un plauso va anche alla Dissident che in un periodo davvero breve è riuscita a mettere in circolazione oltre trenta vinili (tutti in versione rigorosamente limitata) che stanno destando particolare attenzione nel pubblico che adora l’italodisco, la cosmic-disco e l’acid-house.
-Breger “Feld Und Wiese” (Elektrotribe): arriva dalla Germania (con un titolo del genere non potrebbe essere altrimenti), ed è un appassionato di dub-techno. Dal suo progetto edito da Elektrotribe ben si erge “Helpless In Remscheid”, sagace mix tra techno ed house, miscela in cui i tedeschi riescono a dare il loro meglio al momento (anche se, più di qualcuno, è di parere completamente opposto). Più liquide e corrose dall’effettistica sono invece “Kain Aber” e “Zirkelbrot”, i passaggi che conducono alla più intensa deep-techno racchiusa nella title-track, “Feld Und Wiese”. A completamento ci sono due remix: quello grattugiato di Pete Nouveau (per “Helpless In Remscheid”) e quello appuntito di Alex Tomb (per “Kain Aber”).
-Heinrich Dressel “Escape From The Hill” (MinimalRome): l’archeologo è la figura professionale preposta e specializzata nel ricostruire la storia delle antiche civiltà attraverso i reperti delle attività umane accumulati nel corso dei secoli e nell’assicurare al meglio la loro conservazione. Pensate ora alla trasposizione di tutto ciò nel campo della musica ed otterrete il punto di partenza del nuovo MinimalRome in cui vi è, prima di tutto, uno studio approfondito su un preciso settore musicale e poi la ricerca, l’identificazione e il recupero di mondi sommersi dalla polvere degli anni. Prendendo in prestito il nome di un noto quanto rispettato archeologo tedesco che deve la sua fama al lavoro di classificazione delle anfore rinvenute presso il Monte Testaccio di Roma, Valerio Lombardozzi (alias Composite Profuse) prosegue il viaggio iniziato giusto un anno fa sulla Strange Life di Legowelt (“Mons Testaceum”) attraverso un secondo capitolo completamente immerso nelle atmosfere della Roma imperiale. “Escape From The Hill” è un lavoro minuzioso sulla musica che potrebbe essere adoperata come soundtrack per pellicole cinematografiche. Ascoltare Ennio Morricone o Claudio Simonetti aiuterebbe non poco nel comprendere più a fondo il messaggio che Lombardozzi (o meglio, Dressel) vuole trasmettere attraverso “The Bright Side” o “Sailing From Ripa Grande”. Ma musica da film è anche quella della title-track, “Escape From The Hill”, o di “The Dark Side”, che ricorda il progressive-rock avanguardista degli anni settanta. Se invece siete in cerca di qualcosa che abbia, perlomeno nella sua intelaiatura ritmica, qualcosa di riconducibile all’electro, potrete placare la sete in “Porticus Aemilia”, un vortice di brividi e di soddisfazione convergenti in un progetto che si eleva nettamente dalla tipica dozzinalità della produzione italica.
Electric greetz