Al compositore berlinese le definizioni stanno strette, e questo lo avevamo già abbondantemente capito dai suoi lavori usciti nell’ultima decade. Ora il tedesco torna a sottolineare la sua “aderenza alla non aderenza musicale”, con cui rimarca il concetto che la massima espressione si può raggiungere attraverso molteplici vie, senza la necessità di ghettizzarsi in un’area precisa e tantomeno senza sottolineare che questa sia underground o overground. Insomma, la musica parla da sola, senza bisogno di stimoli o suggerimenti di sorta. Goldmann è uno che si ciba da sempre di percezioni estetiche, e l’imminente “17:50” celebra ciò in una scomposizione e ricomposizione di stili. L’autore sembra quasi divertirsi nel filtrare ed isolare ogni singolo suono adoperato, astraendolo dal suo habitat originario per poi rituffarlo in un nuovo circolo che trae energia da altri elementi, a loro volta estrapolati da mondi disparati. Eccitante come praticamente tutti i suoi elaborati, l’album fa leva anche sul binomio immagine-suono: la prova è nel booklet di venti pagine, in cui le fotografie del bulgaro Dimitar Variysky (tratte dalla gallery The Mall Of Malashevci) generano un’accesa serie di contraddizioni, tipiche del mondo del nuovo millennio in cui si sciupa senza limiti da una parte e dall’altra si fa rigida economia. Ed ecco gli stridenti contrasti immortalati in un mercatino dell’usato di Sofia, dove riviste pornografiche giacciono accanto a peluche per bambini, dove tra telecomandi e telefoni cellulari di prima generazione si scorge un corpulento dildo in plastica, e dove una bambola gonfiabile viene incorniciata da una serie di immagini sacre. Viviamo nell’era delle contraddizioni, e Goldmann effettua la trasposizione del concetto in un flusso di suoni che sarà impossibile raccogliere sotto una definizione univoca. Nelle nove tracce si apprezza l’IDM, un pizzico di Glitch, elettronica post moderna, Noise, Experimental, Ambient e rumorismo figlio delle teorie ed intuizioni russoliane. Riferimenti Techno/House si rintracciano in “Rigid Chain”, “Adem” ed “Empty Suit”, ma riflettendo ancora l’ottica altamente avanguardista. A rischio di apparire scioccamente ottimista, considero “17:50” uno di quei (pochi) segnali che oggi attestano una sensibilità ed approccio valido alla materia. Insomma, un album che ricorda come non tutti trascorrano le proprie giornate a girarsi i pollici dicendo di fare “tendenza”.