Quando si parla di lui non si può fare a meno che rammentare Flat Eric, protagonista del video di “Flat Beat”, un successone di oltre tre milioni di copie scelto dalla Levi’s per un altrettanto memorabile spot, e tra l’altro oggetto di una recente querelle con gli italiani Nari & Milani, rei di averne plagiato una parte. Era il 1999, YouTube non esisteva ancora, ma l’effetto fu comunque virale, il pupazzo giallo era ovunque. Quentin Dupieux, musicista e videomaker, comincia ad incidere dischi come Mr. Oizo nel 1997 per la F Communications di Eric Morand e Laurent Garnier, e quando questa chiude i battenti, nel 2008, è la Ed Banger Records di Pedro Winter a prenderlo sotto la propria ala garantendogli un posto di tutto rispetto all’interno della nuova scena “French Electro” di Justice & company, di cui lui stesso ne fu ispiratore. Ora Dupieux si sposta sull’etichetta di Flying Lotus, la Brainfeeder, per incidere quello che, almeno sinora, pare il punto più basso della sua creatività. Perché? È presto detto. L’intero disco si muove su una scacchiera di mosse alquanto prevedibili e che lasciano supporre una quasi totale assenza di idee. Qualche avvisaglia si sente già in partenza, con “Bear Biscuit”, un Cut Up “trappizzato” (desiderio di rendersi appetibile per le platee americane?) in cui frammenti vocali tagliati e reintonati sulla tastiera seguono un vorticoso dedalo di suoni graffianti e graffiati. Quando le tessere del mosaico sembrano impazzire del tutto, ecco entrare un sample Disco che cala il sipario. “Ham” è Electro House erosa dal fuzz che marca stretta la Techno/EBM tinteggiata di nero coi classici orch hit, e l’effetto viene ripetuto, seppur smorzando alcuni toni, in “Destop”, ma la percezione è quella di sentire uno dei brani del nostro Adriano Canzian apparsi su International Deejay Gigolo dieci (e passa) anni fa. In “Dry Run” si sente ancora un frammisto di sampledelia anni Novanta, e fa sorridere che per confezionare una roba simile sia stato interpellato pure Bart B More: due mani erano ben più che sufficienti per una banalità di tale portata. L’atmosfera ludica domina “Mass Doom”, in cui il sample gira cambiando goffamente tonalità mentre sotto si insinuano percussioni retro (Cowley, Orlando) e suoni appuntiti tipici della corrente Ed Banger. Il lavoro con lo slicer richiama Siriusmo, ma anche qui Dupieux rivela troppe insicurezze. Non basta tagliuzzare qua e là e giocare col loop per ottenere una figata. Su “Machyne” rieccolo a maneggiare Techno, ma lo fa come un bimbo che scopre per la prima volta il campionatore. Il trillo del telefono e la voce che risponde dall’altra parte poi meriterebbero veramente un premio per la vacuità. Non contento, infila ancora suonini stupidi da telefono anni Novanta in “Torero”. In “Isoap” tutto continua a gravitare intorno ad un sample, per giunta non troppo indovinato, farcito di funky e slapperie che strizzano l’orecchio ai recenti Daft Punk ma senza un vero punto forza. Forse la magia è nella title track, “The Church”? Macché, pure qui il sermone è lo stesso, e l’effetto inesorabilmente soporifero. Alla fine la migliore resta “Memorex”, che dura poco più di un minuto ma che mette sul tavolo tutto quello che si trova sparpagliato nel resto del disco. Insomma, dieci brani che non trasmettono praticamente niente se non trame di edit continui che incorniciano inappetibili ed insipienti orpelli decisamente superati. L’effetto è quello di guardare attraverso un vetro bel pulito, su cui non si distingue nulla, nemmeno la polvere. II nuovo anno è cominciato solo da poche settimane ma forse il peggior album del 2015 è già uscito. [Giosuè Impellizzeri]