Innovazione e cambiamento: questi i due termini che ormai, da più di qualche anno a questa parte, invadono etichette discografiche, clubs, dj’s e producers di tutto il pianeta. Ed oggi anche la Platipus, celebre etichetta londinese fondata da Simon Berry (Art Of Trance, Poltergeist, Vicious Circle, Union Jack, Clanger) nei primi anni novanta e da sempre finalizzata alla diffusione della musica trance vissuta nell’estetica più canonica. Alla fine del 2007 però anche il regno britannico della progressive e della trance si apre alle contaminazioni ed inizia a mutare pelle. Spinta decisiva è data indubbiamente dal brasiliano Gui Boratto, architetto impegnato nel settore pubblicitario e scopertosi di recente (2003) anche compositore. E’ a lui che Platipus affida il secondo volume di “Addicted” (il primo portava la firma di Kosmas Epsilon e Luke Chable) che vira, in modo sensibile ed inequivocabile, verso itinerari differenti che ben poco dividono col passato della label inglese. Il brasiliano dichiara di essere cresciuto coi Depeche Mode ma che oggi, quel certo tipo di electro music, non gli piace più poichè utile solo ai giovanissimi che non hanno avuto la fortuna di vivere musicalmente gli anni ottanta. Il suo stile quindi è un altro, fatto di analisi ritmiche, effetti tipici di una manualità live ed un netto reimpasto degli elementi della trance, ormai scardinata completamente dalla sua vecchia ubicazione. Ma che, come dice il produttore di São Paulo, è ancora pronta ad emozionare chi l’ascolta. Alla base di tutto c’è comunque un’intersezione tra house e techno con la prevalenza della seconda soprattutto nel gusto per il loop e per le misure ritmiche ripetitive e circolari. Centrifugata, in un viaggio lungo due cd’s, è la musica di Dan Berkson, Stephan Bodzin, Martinez, Minilogue, Atto & Anderson Noise, Dusty Kid, Oliver Koletzki & Kiki, Sian, Axel Bartsch, Jamie Anderson, Sascha Funke e SuperMayer (Superpitcher e Michael Mayer). Ovvio che non mancano i contributi audio dello stesso Boratto come “Mr. Decay” (riletta dal polacco Robert Babicz) ed “Hera”, soltanto due delle numerose gemme che negli ultimi tre anni si sono susseguite con straordinaria frequenza su etichette di alto calibro come Plastic City, Kompakt, Harthouse Mannheim, Defrag Sound Processing e Parquet. “Addicted Vol. 2” è la testimonianza viva di un presente che cambia. Anche per una label purista come Platipus.
-Codec & Flexor “Come A Little Closer” (Body Function): gli ex rockers (Atomic Comic) lanciati nel 2001 dal compianto Christian Morgenstern e dalla sua Forte tornano alla ribalta dopo la parentesi vissuta nel 2006 con la Kitty-Yo di Amburgo. Noti in Europa per un album strepitoso come “Tubed” (licenziato anche oltreoceano dalla Emperor Norton) e per le azzeccate “Time Has Changed” e “Crazy Girls”, Sven Zalac (Codec) e Mathias Freund (Flexor) inaugurano la propria etichetta con tre tracce. La migliore, forse non a caso, è proprio la title-track, “Come A Little Closer”, che riassume le esperienze di qualche anno fa avvolgendole in suoni più stridenti che tanto piaceranno agli anti-minimal. Peccato che poi, con “Motion” e “Mirrors”, le cose prendano una piega differente lasciandosi coniare dal business e dalle partiture a cui Codec & Flexor non avrebbero dovuto nemmeno avvicinarsi.
-Wolfram feat. Marcuss Mixx “Americafuckyeah” (Crème Organization): ponte ‘audio’ tra Vienna e Chicago: dall’elegante capitale austriaca compone il numero Wolfram ‘marfloW’ Eckert (il Mr. Diskokaine per intenderci) e a rispondergli dall’altro capo del filo (e dell’oceano) è Marcuss Mixx. Ad unirli è l’amore per la jackin’ house di un tempo che nella Wolfram Original Mix è depurata dai tratti più putridi ed addolcita da un solco quasi deep. Poi arriva l’americano che si lascia conquistare dall’umorismo più satirico: nella prima versione, in cui dichiara di essersi avvalso dell’apporto vocale di Condoleeza Rice, sputa fuori turpiloqui su un conturbante intreccio di suoni ipnotici ed elementi old-school (i claps!). Non molto differente la A Piece Of Peace che fondamentalmente varia gli arrangiamenti, questa volta più aderenti alla vecchia cultura musicale statunitense. Il tutto sotto il chiaro segno dell’influenza che ha lasciato l’indimenticata Trax Records di Larry Sherman e Vince Lawrence.
-Onur Özer “Kasmir” (Vakant): Onur Özer appartiene a quella schiera di artisti (come Christian Smith, John Selway, Matt John, Ricardo Villalobos, Paul Brtschisch e mille altri) che i dj’s profetizzatisi ‘house’, per anni, riuscivano solo a snobbare ma che oggi, quasi per uno strano scherzo del destino, ha dato loro la possibilità di continuare ad armeggiare dietro la consolle. Qualcuno la chiama house ma sinceramente la musica di Özer con la house divide ben poco. L’album, pubblicato dalla label tedesca di Alex Knoblauch e Stephan Bolch sempre legata al verbo della minimal-techno, infatti si destreggia intorno a sensazioni ansiose (“Innervoice”, “Terpsichorean Echoes”) poi raggiunte da strani ritmi fluidi, levigati e scanditi da bassi sordi ed ovattati (“Sahara”, “Astronomy Glance”, “Aida”). Sonnecchioso ma viaggiante insomma. Il paragone che emerge in modo lineare è quello con Hawtin, un altro di quelli che soltanto fino a due anni fa i cosiddetti ‘dj house’ (a loro piaceva essere classificati così per non essere confusi con altro) consideravano solo uno dei tanti appartenenti all’ ‘armata nemica’. Proprio lì dove oggi rintracciano la materia prima per le loro selezioni. Ah la coerenza …
-Yuksek “It Comes E.p.” (UWe): Pierre-Alexandre Busson, ossia Yuksek, è uno di quelli che partecipano con più attivismo alla scena new-wave francese. Le sue apparizioni, fatte registrare dal 2003 su labels come Hypnotic Music, Rise, I’m A Clichè e Relish, hanno richiamato l’attenzione di personaggi come Busy P, Andrew Weatherall, Freeform Five, Mylo, Laurent Garnier ed altri big names internazionali. Oggi si aggiunge anche il contributo sulla UWe che inserisce nel proprio catalogo “It Comes E.p.” aperto, in modo esemplare, da “Kontraul”, sporco come le cose di Boys Noize ed Ed Banger ma una spanna più burlesco ed urlato. In “Contact” il paragone più vicino e tangibile riguarda invece Uffie con le sue velocità a basso regime e modesto contenuto calorico. Sul lato b “It Comes” (sia nell’Extended che nella Radio Edit) in cui il selvaggio editing fa da coronamento ad una parte vocale molto ‘indie’. I suoni sono quelli dei primi Daft Punk, rivitalizzati e riconvertiti tra la techno e il pop. Probabilmente Busson, dieci anni fa, ascoltava nella sua cameretta “Homework” ed oggi desidera rendere una sorta di omaggio che suona nuovo solo per chi, un decennio addietro per l’appunto, ascoltava altro. Un buon disco comunque che però avrei visto (e sentito) meglio sulla parigina Kitsuné che sulla label di Laurent Hô connessa, almeno secondo quel che accadeva con più frequenza in passato, a materie technoidi.
-Phalangius “The Cambridge Library Murders” (Strange Life Records): il mistero che aleggiava sino a qualche giorno fa è svelato: Phalangius è il nuovo progetto dell’instancabile Danny Wolfers che va ad aggiungersi ad una più che copiosa serie (Danny Blanco, Franz Falckenhaus, Gladio, Klaus Weltman, Legowelt, Polarius, Raheem Hershel, Salamandos, Smackos, Squadra Blanco e Venom 18) cresciuta ulteriormente negli ultimi quattro anni. Registrato su polverosi nastri magnetici questo album è un vero manifesto di musica cinematica che volge lo sguardo a teoremi matematici, ad omicidi irrisolti e rimembranze di vecchi computer. Dalle 18 tracce viene fuori una vasta gamma di penombre e di stati d’ansia avvolti nella classica bolla melanconica che il musicista di Den Haag imprime da sempre nelle sue numerose produzioni. Per chi ama John Carpenter è un acquisto obbligato.
-Hadamard “Untitled” (Bunker): se vi era piaciuto il suo “A Prelude To Destruction” (ne parlai in Electronic Diary #121) non potrete fare a meno che adorare anche il naturale proseguimento che non muove, nemmeno di un millimetro, l’attenzione verso il mondo della gothic-electro. Già , perchè Janko Bartelink si rivela un vero amatore delle tenebre e delle oscurità che lascia emergere in modo più che visibile nel nuovo Bunker. Nessun titolo per le sei tracce presenti ma solo concatenazioni ritmiche meccaniche e rumorose come obsolete macchine industriali, a volte cinte da basslines ed altre da terrificanti noize. E’ tra la b2 e la b3 che Bartelink rallenta visibilmente i battiti e si lascia andare su armonie mistiche ed evocanti l’ignoto. Dario Argento ne andrebbe matto.
-Mutron “Alone” (King Kung Foo Records): noi europei abbiamo conosciuto Yasuyuki Hirata per la prima volta nel 2002 quando Zombie Nation lo volle annoverare tra gli artisti della sua Dekathlon. Poche apparizioni ma tutte degne di menzione (ultima, in ordine cronologico, quella sulla nostrana Tractorecords) per l’estroso produttore nipponico che (ri)torna su vinile, dopo un lungo periodo d’assenza, grazie alla belga King Kung Foo. “Alone”, pronto già da diverso tempo (forse destinato ad un possibile rientro su Dekathlon ma poi vanificato dall’arenamento della struttura monegasca) sottolinea i tratti per cui l’orientale è noto nel mondo della musica elettronica ossia la spavalda successione di bassi, pads tremolanti e voci esoteriche. Il brano sintetizza tutte queste esperienze in un condensato (e concentrato) terzinato che pare ispirato dal Vangelis di Blade Runner. Il remix, di Ronny & Renzo, invece sposta inaspettatamente tutto su un downbeat modulato da suoni orchestrali e non così lontani dai Leftfield. A mancare è solo la nota ad 8 bit per cui l’amico nipponico si era rivelato un più che accanito sostenitore.
-Patrick Zigon “Floorkeeper” (Yellow Tail): Patrick ‘Zigon’ Schmutz, già conosciuto per una carrellata di produzioni su labels come Save To Disc, Global Ritmico, Electribe, Earregular, Session Deluxe e Puzzle Traxx e per una copiosa lista di remix per autori ed etichette ancora più popolari (Meerestief, Traum, Cocoon) è tra quelli che segue una tipologia di suono incastrata tra nu-techno e nu-minimal. Non molto differente dall’ultimo Luca Bacchetti su Wagon Repair, “Floorkeeper” è un buon brano, ‘musicato’ al punto giusto e non troppo noioso come certe ‘minimalate’ (le chiamano così adesso) create, a mio modo di vedere, con la sola mancanza di idee. Due i remix: quello di Stephan ‘Shin’ Hinz (Kling Klong, Renaissance) e quello del meno noto Gabriel Creole. La mia preferenza cade sul primo che raduna più elementi ed un flusso che oggi mi piace definire rollin’.
-Miss Kittin “Kittin Is High” (Nobodys Nizzness): i più cattivi dicevano (e continuano a dire) che la Hervé, senza Amato (The Hacker), è ormai spacciata. Dargli ragione o torto? Di sicuro è che “I Com”, l’album da solista del 2004, nonostante l’interesse di NovaMute ed Astralwerks non ha lasciato nulla di eclatante e il mercato non lo ricorda affatto come il “First Album” edito nel 2001 dalla label di Dj Hell. Anche i derivati, “Requiem For A Hit”, “Professional Distortion” ed “Happy Violentine”, non hanno generato una grande serie di ovazioni. Oggi la dj di Grenoble ci riprova, lasciandosi affiancare da Pascal Gabriel dei Peach (ricordate “On My Own” del 1996?) con “Kittin Is High” che racchiude due brani, o meglio, due remix. Uno riletto da Black Labelle, permeato di energia soffusa (è come se suonasse un disco dei Motor ma con l’ovatta negli speakers) e l’altro da JoJo De Freq che vira in modo diretto verso il neo-minimal rotto, solo a volte, dai ritmi sincopati e dai synths anni ottanta della parte centrale. Unico quindi il momento che fa rivivere le indimenticate atmosfere di vecchi e.p. come “Champagne!” ed “Intimités”. L’etichetta è la Nobodys Nizzness, sorta (forse) dalle ceneri della praticamente morta sul nascere Nobody’s Bizzness. Hanno ragione i cattivi o no? Nel frattempo incalzano consigliando di comprare il picture-disc. Ma solo perchè è più bello da appendere al muro della propria cameretta.
-Unit 4 “New Day” (white): in teoria questo “New Day” (rilasciato in primavera su una strettissima limited-edition su Amontillado Music) avrebbe dovuto essere (ri)pubblicato durante l’estate dalla Clone ma, causa ritardi e slittamenti d’uscita, oggi lo ritroviamo su una ben poco dettagliata white label. Lanciato dal successo internazionale di “Bodydub” (2004) il duo formato da Ralf Wolfgang Xaver Beck e Michael Künzer tenta di bissare il successo con un brano che però pare più ammanettato al filone electro-house che all’electro-disco, con tanto di melodie stralciate dalla corrente nu-minimal. A dare l’imput all’acquisto è essenzialmente la rivisitazione ad opera di Bangkok Impact che plasma un ritmo più pieno e spigoloso in cui l’influsso disco si fa avanti ma non in modo massiccio. Il finnico è cresciuto ma guardando (già da un pò di tempo a questa parte) più l’house d’oltremanica che l’electro mitteleuropea che invece spadroneggiava nelle produzioni all’inizio della sua carriera (2001). Non credo possa ripetere i numeri di “Bodydub” e non solo per l’assenza di una versione incisiva quanto fu quella dei Tiefschwarz.
-Dj Pippi vs. Willie Graff “Hyper Space” (Drumpoet Community): l’ormai lanciatissima label di Zurigo è lieta di dare il benvenuto ad un’accoppiata d’eccezione. Più noto tra i due è certamente Pippi (ossia il pugliese Giuseppe Nuzzo, storico dj di Ibiza, attivo discograficamente sin dai primi anni novanta) ma Willie Graff si difende altrettanto bene (appare sulla Out Of Orbit di Martinez e sulla blasonata Wave di François Kevorkian). Insieme forgiano un gran brano come “Hyper Space” che al suo interno fonde ritmi pieni di infiltrazioni old-school, vocoder, un basso conturbante ed una grandiosa scia deep d’atmosfera unica. La Space Dub Mix fa riferimento alla produzione progressive-house britannica ma, seppur ben arrangiata e modulata su accenni melodici quasi trance, la prima versione resta insuperabile. E’ un disco sul quale si potrebbe parlare a lungo ma credo che le parole non servirebbero a ricreare la sua magica atmosfera.
Electric greetz