Se il “The First Chapter” del 2006 viene considerato una sorta di greatest-hits per questo “Raw” non c’è nessun problema nell’attribuirgli il ruolo dell’album. Finalmente Felix B. ‘James Flavour’ Eder e Peter ‘Break 3000’ Gijselaers trovano il tempo per confezionare il primo full-lenght, un passo importante per la carriera dell’ormai accreditato duo rivelatosi, dal 2004, uno dei punti di forza per la nuova vita dell’house music traslata all’interno del mondo elettronico. Inizialmente definito ‘dirty house’ il suono dei Dirt Crew (a volte esposti come Sweet Slave e tra i primi profetizzatori di un suono che ha tradotto la vecchia house in qualcosa di più rude e selvaggio) gonfia i woofers e mette a dura prova i tweeters mediante casse scandite sempre sui 4/4 e melodie spiegazzate e pizzicate. Il tutto sospinto da una moderata dose di percussioni che, nella musica da ballo, fanno sempre la loro bella presenza. E’ difficile scegliere la traccia più intrigante ascoltando materiale come “Coming For You”, “Big Bad City”, “Deep We Are” e “Boogie Down” giacchè tutte, in un modo o l’altro, sono in grado di disegnare un avvincente panorama musicale. Il package di “Raw” racchiude anche un bonus-cd che contiene i remix realizzati per Metrika, Marc Romboy, M.A.N.D.Y., Hoel James, WhoMadeWho, Linus Loves, 2020 Soundsystem, Jimpster e Sasse al quale spetta il merito di aver lanciato il duo tedesco-olandese grazie alla fortunata “808 Lazerbeam” pubblicata dalla sua Mood Music nel 2004.
-Nimoy “Untitled” (Bunker): Jan Duivenvoorden, ex-membro del collettivo degli Unit Moebius, ritorna su Bunker col suo primo e.p. dopo una manciata di comparsate (nel “The Hague Rocks The Planet #2” e nello “Stalingrad Vol.1”). La sua visione dell’electro appare piuttosto alienata e subliminale (“We Are The World”) proprio come lo stile Bunker ha imposto nell’ultimo triennio sfidando il drammatismo (“Pigeon Is My Prey”) paragonabile all’intermezzo di un film horror di Dario Argento girato negli anni settanta. Lievemente più soporifero in “Dort Kommen Die Clowns” l’olandese sfodera “The Orca Reunion” con cui sfiora l’electrofunk mediante una scalcinata melodia che graffia i classici ritmi spezzati della 808. Le percussioni bianche poi prendono posto su “Smoking” insieme ad una stramba vena orchestrale e bassi metallici dei primi Depeche Mode mai sentiti sinora sulla label di Tavares. Ps: nell’e.p. (senza titolo) c’è spazio anche per “1981” che già figurava nel citato “The Hague Rocks The Planet #2” uscito quasi otto anni fa, creazione dirty-electro edificata su sincopi e strascicanti pads tetri, neri e fumosi, tanto vicini allo stile del primo I-F con cui Nimoy si divise lo “Space Toilet” su Disko B (1996) ed altre collaborazioni registrate nell’immortale lp “Fucking Consumer”.
-Raiders Of The Lost ARP “Beyond The Dark” (Nature): dopo un lungo break la Nature, label primaria del reticolo Final Frontier capeggiato da Marco Passarani, ritorna col nuovo disco di Mario Pierro. Dopo essersi inventato, con l’amico Francesco De Bellis (Francisco, Mr. Cisco) i progetti Mat 101 e Jollymusic, il produttore romano noto anche come Starship 727 è finalmente pronto con un nuovo singolo (atteso da oltre un anno) che riflette la sua personale ottica di techno-soul già assaporata in trascorse esperienze come “Funk 005” e il più remoto “Electric City Phunk”. “Beyond The Dark”, che anticipa l’uscita del nuovo lp (il secondo dopo “4” del 2004) s’avvale del featuring di Galaxy 2 Galaxy e Santiago Salazar (Underground Resistance): prima si raggiunge una sponda hi-tech-jazz raschiata da una ruvida Tb-303 e poi si lascia spazio alla melodia. L’asse Roma-Detroit è, ancora una volta, icona di saggia inventiva.
-Manuel Tur & Dplay “Clock Shift E.p.” (Compost Black Label): il duo di Essen, che rintraccia nella deep-house il filone musicale da seguire, approda su Compost dopo la recente avventura sull’austriaca Drumpoet Community. “Clock Shift” è un eccellente viaggio a ritroso nel tempo per fotografare le origini del soffice suono deep che pian piano pare riconquistare la fiducia negli ambienti europei. “Move” muove qualche corda techno in più mentre “Conchord” non può che ricordare l’Heiko Laux dei tempi migliori (2000-2001) attraverso una gloriosa deep-techno da consumare durante l’autunno a cui ormai andiamo incontro.
-Christopher Just “Charleston” (Combination): quando l’ho incontrato in occasione del Festival Dell’Innovazione (leggi Electronic Diary #152) il buon Christopher mi ha parlato di un pezzo curioso che avrebbe riportato il sorriso sulle labbra di chi è annoiato ed incupito da troppa minimal senz’anima. Ed ecco servito “Charleston” che sfrutta un giro jazz di Mike Oldfield abilmente incastrato in ritmiche electro-disco alla “Popper”, negli arpeggi alla Ural 13 Diktators e nei bassi analogici alla Miss Kittin & The Hacker. Il giro di tromba ben figura anche nelle versioni del newyorkese Larry Tee e dell’austriaco Mel Merio (Menstruation Monsters) ma non perdete tempo e calate la puntina sull’Extended Dance Mix, divertente e spassosa almeno quanto l’intramontabile “I’m A Disco Dancer (And A Sweet Romancer)”. Let me see your jazz hands!
-Terre Thaemlitz pres. Terre’s Neu Wuss Fusion “She’s Hard” -remixes- (Mule Musiq): l’ambiguo musicista statunitense (è nato nel Minnesota) trapiantato a Kawasaki (Giappone) si ricorda per una corposa serie d’apparizioni su etichette di tutto rispetto quali Mille Plateaux, Subharmonic e la sua Comatonse Recordings nata nel 1993 con l’intento di lasciare spazio alle produzioni non inquadrabili in un preciso settore. Filo conduttore della sua musica è l’elettroacustica, il digital-jazz, l’ambient e il neo-espressionismo, proprio le caratteristiche dei remix di “She’s Hard” (l’original risale al 1998). La “2007 Archive Of Silence” è un lungo viaggio lunare sicuramente lontano dalle esigenze del dancefloor soddisfatte appieno dal remix di Max Mohr (Playhouse) che riesce ad intersecare i ritmi quaternari vagando in una sorta di nu-trance-progressive dal retrogusto tech-house. Il tutto sulla nipponica Mule Musiq, la stessa sulla quale giusto qualche settimana fa è apparso l’italiano Marcello Giordani con l’interessante “I’m Not Blade Runner”.
-Dapayk & Padberg “Black Beauty” (Mo’s Ferry Prod.): la coppia berlinese composta dal musicista Niklas ‘Dapayk’ Worgt e dalla vocalist-modella Eva Padberg si ricompone a due anni esatti da “Close Up”. A venirne fuori è un curioso microdub che riceve, grazie alla presenza dell’avvenente tedesca, una spinta narrativa che ricorda di frequente lo stile degli americani Crossover. La voce sexy mischiata ai ritmi campeggia in “Doerti” mentre “Khes” s’adagia sulle costruzioni alla Detroit Grand Pubahs. Mi piacciono le saturazioni degli stabs in “Theiss”, l’avanzare della techno densa di oscurità di “Black Beauty”, l’electro sincopata dai richiami alla Zombie Nation/John Starlight di “Make It Up”, lo sfoderare dell’anima pop in “Island” (qui il confronto diretto è coi Märtini Brös) e il romanticismo melodico di “As You Please” che sottolinea, marcatamente, l’estro dirompente dei due eclettici artisti. Anche il minimal, così, dimostra di avere un’anima.
-Neil Landstrumm “Restaurant Of Assassins” (Planet Mu): per anni mi è piaciuto definire Neil ‘Landstrumm’ Sutherland il manierista della techno, colui che è riuscito, anche in tempi non sospetti, a mescolare stili apparentemente discordanti in una combinazione vincente. Dei suoi vecchi (ma intramontabili) lavori su Peacefrog, Mosquito, Tresor e Sativae rimane intatta la voglia di stupire l’ascoltatore con trovate sempre affascinanti e trascinanti. E’ proprio il caso di tirar fuori da questo album, edito dalla label di Mike Paradinas e contrassegnato da un titolo che riporta alla recente strage di ferragosto a Duisburg, “Kids Wake Up”, un collage tra electro, techno e bleepy intersecate da suoni che mi riportano a “Coloured City” di Laurent Garnier (1998). A questa si connette una lunga serie di sperimentazioni che passano dalla lampeggiante “Yorkshire Steel Cybernetics” alla frenetica “Assassin Master” (in cui si ripesca da Aphex Twin), dalla grintosa “Reverse Rebel” da cui s’eleva la colonna fumosa del grime alla drill-electro di “Harlem Shoot Me” per finire sulle sponde della claustrofobica “Lung Dub” (in coppia con Si Begg) e la più giocosa “Big In Chapeltown” che pare visualizzare gli screen-shots di vecchi videogames arcade.
-Danuel Tate “Pushcard E.p.” (Wagon Repair): Danuel Tate, una delle tre ‘teste’ di Cobblestone Jazz, è un pianista jazz e questo suo primo e.p. da solista ne attesta il virtuosismo legato al gusto per l’improvvisazione. Melodie jazzy vengono condotte per mano nei meandri di loops in 4/4 riverberando un’esperienza inedita per Wagon Repair. Le quattro tracce presenti, e nello specifico “I Want My Money Back” e “Slim Jim Boko”, evidenziano in modo sublime l’esperienza di mr. Tate all’interno di un filone che con probabilità non conoscerà un seguito ma che almeno si batte per un’ideologia da preservare dagli stupidi disegni tracciati dal business.
-Uusitalo “Karhunainen” (Huume): Sasu Ripatti, già attivo come Conoco, Luomo, Sistol e Vladislav Delay, ritorna nelle atmosfere nebbiose e gelide di Uusitalo per un nuovo album (follow-up del recente “Tulenkantaja”) ricco di accorgimenti e in cui viene messa in mostra la sua identità musicale multifacciale. Dieci le tracce, otto delle quali dedicate alla batteria e ai ritmi stagliati intorno a suadenti abbracci deep. I titoli, tutti rigorosamente in lingua finlandese, si rendono poco appetibili (almeno per noi italiani) ma la musica che ne viene fuori è qualcosa di elegantemente decorato. “Konevista”, “Korpikansa”, “Sikojen Juhla”, “Himo Perkele” per ballare, “Vesi Virtaa Veri” e “Puut Juuriltaan” per volare. E sognare.
-Mario Zar & Marco Berto “Salt’N’Skin” (Yellow Tail): il duo svizzero, già attivo con progetti su Wolfenfunken e Deep Love, approda alla Yellow Tail, la ‘sorella’ minimalista di BluFin. L’Original di “Salt’N’Skin” vede in prima linea un buon drumming e suoni spezzettati (come oggi si usa nella maggior parte dei casi) coadiuvati da una spruzzata deep. Il remix degli italiani Presslaboys (Luigi Gori & Omar Neri) viaggia su una cassa in delay sulla quale s’innestano una serie di gorghi sibillini che rendono il tutto ancor più trippin’ ed hypno. Chiude “Donnawetta” in cui gli elvetici esplorano il lato più scuro della loro musica ravvivandolo coi tipici schiocchi alla David Keno.
Electric greetz